lunedì 24 maggio 2010

HERMES (ovvero Medaglioni divini - chapter 5)


Eccoci giunti al capitolo forse per me più arduo, com’è sempre arduo parlar di se stessi, cioè d’Hermes! Mia mamma era Maia, una dolce ninfetta stuprata da Apollo in una delle sue fasi di bestialità (codesto accaduto venne poi più tardi decantato da quel gran zuzzurellone di Schopenhauer quando scrisse “Il velo di Maia”, intendendo chiaramente l’imene spezzato di mia mamma).
Nacqui e subito fui precocissimo nei miei giochetti: dopo un giorno inventai la lira, dopo 7 giorni l’ECU e dopo un mese avevo coniato l’Euro, ma mia mamma mi fece notare che i soldi non servivano a un cazzo di nessuno, così bruciai tutto e inventai la lira intesa come strumento musicale, donandola a quel gran farabutto di mio “padre” Apollo, cui però, rincoglionito dal suono soporifero dello strumento, fottei la mandria immortale e me ne andai in Arcadia dove presi dimora.
Inizia a frequentare un po’ di gente stramba, ladri, truffatori, travestiti e puttane, ma sempre con signorilità ed eleganza, e infatti a breve un mio caro amico di sbornie d’”oinos kaì mellos” (brodaglia dolciastra e alcolica, sorta di Redbull ellenica), un vecchierello cieco che mi disse di chiamarsi Umero o qualcosa del genere (son vecchio, non ricordo bene) mi dedicò, una sera sbronza, una poesia nella quale mi definì “gentilmente astuto, predone, apportatore di sogni, osservatore notturno, ladro ai cancelli, che fece in fretta a mostrare le sue imprese tra le dee immortali”.
E infatti, amici miei carissimi, riuscii a conquistare la dea delle dee, Afrodite, riuscendo a convincerla che ero un noto imprenditore edile, visti tutti i mobili e le vettovaglie che spacciavo nel mio negozio “Cose d’altre case”, e sfoggiando le mie scarpe NIKE con ali dorate e svolazzanti ai piedi (eh già, tesori miei, fu grazie a me che Afrodite per prima scoprì la passione che fu poi tutta femminile per le scarpe fashion e sexy, e io scoprii e inventai quella nobil arte nomata poi “Feticismo” o, per i più colti, “Retifismo”). Ci sposammo di lì a pochi mesi: ahimè fui spesso fedifrago (ma la mia natura di ingannatore era qualcosa che non riuscivo a tenere a bada), collezionando 18 amanti e 13 figli da donnine, ninfe e donnacce varie, ma il mio amore fu sempre per Afrodite.
Suo padre però non fu mai contento della nostra unione, e ahimè i nostri figli prediletti ebbero sempre delle sfighe fantozziane (bell’aggettivo… non so cosa cazzo voglia dire essendo io di 7000 anni fa, ma mi garba): il primogenito Ermafrodito (decisamente un idiota) si innamorò a tal punto di quella sciacquetta di Salmace, che alla richiesta di non separarsi mai da lei, furono scissi in un’unica persona, e così mi ritrovai con un figlio che aveva il cazzo a destra e la figa a sinistra, e che morì totalmente folle perché passava tutto il tempo a scopare se stesso.
Anche col secondo non andò bene: appena nato chiesi alla nutrice perché non gli avessero tagliato il cordone ombelicale che gli penzolava a terra, ma la risposta mi raggelò; ciò che vedevo del mio piccolo Priapo non era il cordone, ma era il suo membro già lungo una settantina di centimetri… A quel punto decisi che era meglio lasciare la mia consorte con cui rimasi in ottimi rapporti, e nel mio vagabondaggio incotrai una dolce verginella di nome Driope.
Eran mesi che non consumavo, ci accoppiammo come bestie, ma dopo nove mesi la maledizione dei miei figli non era terminata: il mio terzogenito (che per l’impossibilità di mettergli i pannolini chiamai ironicamente Pan) al corpo d’uomo univa gambe e zoccoli di capra; provai a spiegare a Driope che era colpa d’averla voluta fare alla pecorina (io la disdegnavo come cosa, ma lei era decisamente maialetta), ma lei in tutta risposta mi diede uno schiaffone, emise un urletto e fuggì via, lasciandomi come ragazzo padre quella mostruosità da allevare.
Per fortuna vagabondando, e crescendo Pan, ritrovai e rispolverai le mie vecchie doti d’imbroglione e col tempo misi su in Etolia una piccola agenzia mille pratiche, mentre mio figlio aprì un casino-osteria dove, la notte, ce la spassiamo tuttora in compagnia, alla faccia di Driope che dicon esser diventata cantante di grido.

martedì 18 maggio 2010

ATENA (ovvero Medaglioni divini - chapter 4)


Eccoci alfin giunti alla vera storia di chi mi ha ispirato il gruppo: oggi parleremo di Atena, poi storpiata latinamente in Minerva.
Tutto ebbe inizio una notte nella quale Zeus, di ritorno dalle sue solite scorribande a donne e ragazzine carie, ebbe dopo secoli un’improvvisa richiesta dalla mogliettina di giacere con lui. Zeus però, sfinito dalle 27 ragazze sverginate nelle poche ore precedenti, finse un improvviso mal di testa per evitare di farsi scoprire. Era, che fessa non era, attese che il marito s’addormisse e con le sue doti magiche gli procurò un vero mal di testa che perseguitò il padre degli dei per giorni e gironi, come avesse un palo nel cervello. Disperato un giorni si aprì il cranio a testate e con somma sorpresa uscì una splendida fanciulla armata di scudo e lancia (“ecco cosa cazzo era quel palo” pare, secondo ciò che ci tramanda Esiodo, fu ciò che esclamò Zeus).
Questa nascita fu inattesa da tutto l’Olimpo, la povera ragazza vagava come una disperata per tutto il palazzo, facendo disperare chiunque perché, vista la profonda intelligenza, tediava ogni divinità che incrociava con lunghissimi discorsi filosofici e sillogismi aristotelici (N.d.a.: A quel tempo Aristotele ancora doveva nascere…) e così papà e mamma la cacciarono a pedate in quel di Atene, città della quale portava il nome (i genitori eran tifosi dell’Athletikon Panathinaikon di lancio del giavellotto) perché tediasse gli umani aprendo un’università privata (da quel dì furon chiamate “atenei” non per altro) e facesse vivere in pace i consanguinei superni che le avevano affibbiato il dolce nomignolo di “Pallade” perché le rompeva sempre a tutti.
All’inizio gli affari della nuova attività di Atena andavano bene, frotte di giovincelli attici andavano da lei a farsi maciullare il cervello (pare che ad Atena sia da attribuire l’invenzione della ridente pratica nomata “Dominazione psicologica”) con i suoi ragionamenti senza senso, finchè un giorno accadde il fattaccio. Una favolosa ragazza lesbica, di nome Aracne, sentito parlar molto bene della dea (e innamoratasene) decise di far colpo su di lei sfidandola sulla manualità e le propose di vedere chi sarebbe riuscita prima a creare un centrotavola a forma di Ford Ka. Putroppo per Aracne, tali aggeggi erano del tutti lontani ancora dall’esser immaginati, ma la dea, in quanto dea, da dea tutto sapeva e creò alla perfezione il centrino. Per punire la giovincella Atena decise di mutarla in gioviale ragnetta nera grossa e pelosa, ma il padre di Aracne, sindaco della città all’epoca DELLA corrente andreottiana… (N.d.a.: EH GIA’… ESISTEVA Già A QUEL TEMPO AMICI MIEI AMATISSIMI) fece sì che Atena venisse cacciata dalla città.
Da quel momento inizia un lungo peregrinare per isole città e paeselli, in cerca di lavoro casa e manico, finchè non conosce in quel d’Itaca il dottor Ulisse, noto latin-lover, nonché fraudolento, mentitore e corruttore.
I primi mesi furono meravigliosi: gite in barca, appassionate notti d’amore, cene a base di pesce persico e anguille dell’Egeo e promesse d’etterno amor… ma Atena a un certo punto iniziò a mostrare spesso a Ulisse il neonato Eros della sua sorellastra Venere, il che produsse nel nostro eroe strani singhiozzi, mal di testa notturni e spossatezze a comando. Un brutto giorno, per liberarsi dal rischio che sentiva aleggiare nell’aere, Ulisse finse d’aver scoperto la sua vera natura d’omosessuale e confessò all’amata donzella che per non farla soffrire oltre si sarebbe ritirato per sempre nella ben nota isola dei Froci, poco distante da Itaca.
Questo colpo fu terribile per la nostra dea che perse il senno, fuggì e vagò disperata per tutto il mondo; oggidì pare che si aggiri scarmigliata, con le vesti strappate e il seno graffiato lungo le fredde coste delle isole Svalbard, cedendosi una valchiria in cerca di Odino…

mercoledì 12 maggio 2010

APOLLO (ovvero Medaglioni divini - chapter 3)


Per correttezza, coerenza e continuità didattica (che non vuol dire un cazzo ma fa tanto tanto figo) oggi presenterò Apollo (vulgo “Febo”), gemello della sopracitata Artemide.
Sin da subito dimostrò la sua pecca più grave: bramosia sessuale come mai s’era vista prima nella storia umana: sin dopo il primo mese il pupattolo era uso praticarsi continue sedute onanistiche (che per inciso causarono una lunghissima glaciazione in tutta l’Ellade, ricoperta da un manto biancastro e molliccio di neve curiosa per mesi) che portarono allo sfinimento del papino Zeus.
Provarono quindi in ogni modo a placarne la sete sessuale e dopo averlo rinchiuso fino al 15° anno d’età nel sacro tempio Aneros dove insegnavano la vita meditativa (per inciso tutti i 123 sommi sacerdoti impazzirono, così come le 15 vacche, le 4 pecore, il toro, l’orso bruno e la pulce ammaestrata, tutti violati in qualunque modo dalla furia del giovine), decisero di offrirgli in spose 9 splendide vergini Muse, da usarsi una per ogni ora a rotazione. Purtroppo in breve tempo queste dolci e divine ragazze non ressero più sbroccarono totalmente e iniziarono chi a cantare senza sosta, chi a ballare, chi a recitare farsi senza senso, chi a urlare e battersi il petto strappandosi i capelli.
Zeus capì che il figlio, ormai 19enne, alto muscoloso biondo ma totalmente pazzo, doveva esser sedato prima che distruggesse l’universo, decise di viziarlo, novello figlio di papà alto-borghese, e gli comprò una fuori serie in edizione unica: la Suncar, detta dagli ignoranti e plebei umani CARRO DEL SOLE. Piazzatolo sopra, Apollo sfrecciava come un mentecatto a velocità folle (provate voi a fare il giro della terra in 24 ore e poi mi saprete dire…) senza più sentir il peso ingombrante del suo membro perennemente rosso e pulsante. Ma tutti i giochi dopo un po’ stufano e così Apollo scaricò la Suncar al primo malcapitato e fuggì via…
Intraprese così per secoli folli girelli per il mondo, inaugurando, con ogni fanciulla che malauguratamente gli fosse capitata sotto il naso, quella curiosa e stramba pratica dell’ Human-object. Conobbe la dolce Daphne, che non voleva sottostare alle sue richieste di strane pratiche sessuali, e la mutò in Albero; incrociò la sensuale Clizia, la quale si rifiutò categoricamente di ascoltarlo mentre suonava la sua “Composizione per cetra sola in do minore” della durata di circa 16 ore, e la mutò in girasole; si scontrò con un vecchio omosessuale tessalico che voleva offrirgli una cena a base di escargots, e dopo averlo appeso a un albero gli tolse la pelle per farsene una custodia per la sua tanto temuta cetra.
Dopo quest’ultima azione poco piacevole, Zeus e la matrigna Era si incazzarono violentemente e chiesero alla gemella Artemide d’andare a cercarlo nel mondo, per abbatterlo e darlo in pasto ai pesci sega (chi di onanismo ferisce, di onanismo perisce).
La caccia dura tutt’ora…

domenica 9 maggio 2010

ARTEMIS (ovvero Medaglioni divini - chapter 2)


Artemide, (poi doppiata dai plagiatori latini in Diana), dea della caccia, della luna e della notte (anche perché la luna di giorno era ben difficile vederla splendere, se non sotto effetto di pesanti allucinogeni che però erano tutti finiti in mano ai Sommi Sacerdoti).
Nata come gemella di Apollo, e ciò segnò tutta la sua vita. Apolli infatti era un po’ il figo del gruppo: ogni essere vivente che fosse donna, uomo, animale, minerale o vegetale gli si faceva infoiato incontro, e lui con membro eretto si buttava a pesce conscio della sua bellezza perfetta. La gemellina, bellissima come lui, ma dall’animo serio, dopo l’adolescenza optò per abbandonare la casa genitoriale e l’insopportabile parente stretto, rifugiandosi nei boschi e nelle foreste non prima d’aver chiesto alcune cosucce al papino Zeus (che al tempo era abbastanza influente, oltre che abile prestigiatore); ottenne così di restare per sempre vergine (le scene del gemello che copulava con ogni cosa gli fluttuasse attorno l’avevan nauseata), di avere sempre a disposizione cani da caccia con le orecchie basse (secondo alcuni autori e amici intimi della Nostra, questi cani in realtà erano giovani pastori disposti a tutto pur di stare vicino alla Dea che del gemello aveva preso la bellezza, e quindi se Venere si narra abbia inventato il facesitting, ad Artemide si rimanda il dog-play) e ninfe come compagne di caccia, da cui i dubbi sulla sua bisessualità, che alla luce del gemello pansessuale risultava cosa nobile e interessante, soprattutto per i poeti successivi.
Ottenuto ciò che voleva, compiuti i 18 anni (anche le dee avevan leggi da seguire) abbandonò il tetto genitoriale e optò per la vita nei boschi, accompagnata dalle sue fedeli ninfette, dai cervi, dei quali a scuola aveva imparato la lingua (un difficilissimo alfabeto, con tutti soli suoni semivocalici e nel quale ogni parola poteva avere 3 significati diversi), e dei suoi adoranti cani-umani.
Un solo uomo, ardito e coraggioso, tentò di conquistare il suo cuore: Atteone, incrociatola un dì nei boschi mentre cercava di uccidere Cappuccetto Rosso per salvaguardare i lupi che lei costantemente andava a molestare sessualmente, la vide mentre si faceva un bagno nel torrente. Era ovviamente splendida (era pur sempre una dea, mica cazzi!) e lui se ne innamorò perdutamente. Ebbe l’ardire di avvicinarsi a lei chiedendole un appuntamento per il sabato sera, proponendole un giro al lago e una cena a base di pesce. Artemide però di laghi ne aveva piene le tasche, era vegana e aveva notato in Atteone dimensioni non consone del membro sessuale (aveva vista 3D: era pur sempre una dea, mica cazzi!), scocciata e sbuffante lo tramutò in lupo, che venne subito notato da Cappuccetto Rosso che dopo averlo violentato lo portò a casuccia dalla nonna per scuoiarlo e farsene un caldo e morbido scendi-bidet.
Dopo siffatto tragico evento, di Artemide in breve si perse ogni traccia e tuttora dicono si aggiri per boschi, praterie e foreste; le ultime notizie la dicono in terra abruzzese ad allevar Orsi marsicani imparandone la lingua (un difficilissimo alfabeto, con tutti soli suoni consonantici, la sola vocale ”U” e nel quale ogni parola può avere 5 significati diversi).

venerdì 7 maggio 2010

VENUS (ovvero Medaglioni divini - chapter 1)


Venere (o Afrodite per gli ellenici), chiamata dagli amici “callipoda” perché si racconta avesse un fondoschiena da urlo, anche se nessuno ci ha mai spiegato se intendessero dal punto di vista estetico (era forse amante del facesitting) o perché avesse una fortuna spropositata, nacque da due testicoli recisi e gettati nell’acqua che così fecondata la fece sbocciare dentro una conchiglia, già adolescente sessuata.
Non amando sentirsi definire “figlia di due coglioni” si fece adottare da Giove e Giunone, che però, preoccupati dalle velleità di attrice porno-lesbo della giovine, decisero di darle marito per farle sfogare la sua irrefrenabile ninfomania, e la scelta cadde su Vulcano.
Il simpatico Vulcano (Vulky per gli amici) era un giovanotto nano, storpio, grezzo che amava girare per casa in mutande unte a martellare cose a caso perché voleva esser sempre sudato e sporco, e ciò a Venere non piaceva molto; un dì, passeggiando per Olimpia, la ninfomane incrociò lo sguardo di un baldo giovine, istruttore di body-building, ex Mister Olympia (appunto) e particolarmente violento e aggressivo, che rispondeva al nome di Marte e tra i due esplose subito la passione.
Tutto andò bene finchè Vulcano notò la pancia della mogliettina ingrossarsi e dopo 9 bei mesetti nacque un mongoloide con le alette che prese il nome di Amore; il marituccio, che ritardato lo era, ma non completamente cretino, capì che non era suo figlio e iniziò a spiare la moglie, finchè non la beccò a letto con Marte e, sfruttando le sue ampie doti di bondager creò una ragnatela di catene e lucchetti che imprigionò i due. Marte le spezzò con i denti (a Chuck Norris faceva una pippa) e fuggì imprecando contro Venere, Venere si incazzò e piantò il muso per 1268 anni al maritino che pure la riaccolse nella sua casuccia… di Amore si persero le tracce, ma si dice che tuttora vaghi a tormentare le anime e disturbare le vite dei poveri umani.