giovedì 30 dicembre 2010

Insensate ciclicità

Aprii la finestra
c'era la neve
terrea
scavai nella neve
scoprii terra
unghiai la terra smossa
uno scrigno mi punse
ne scardinai il lucchetto
arrugginito
vidi un cuore palpitare
lo sezionai
ne sgorgò sangue
vivo
lo raccolsi in mano
divenne polvere grigia
mi destai
ansante

lunedì 27 dicembre 2010

LA RICERCA DELLA FELICITA' - Michel Houellebecq


Premetto subito che sarò di parte, dal momento che considero Houellebecq tra i più grandi, se non il più grande, narratore della nostra realtà degli ultimi decenni, meritevoel del Nobel alla letteratura, che però mai riceverà per il suo essere natipatico, restio al mondo e controcorrente.

In questa opera, ultima uscita da Bompinai, sono raccolte, tradotte per la priam volta in italiano,quattro precedenti lavori già editi nella sua Francia, e possiamo definirlal come un contemporaneo prosimetro sul mondo e la sua sofferenza dispiegata. Sì, prosimetro, perchè al suo interno vis ono brani in prosa, brevissimi saggi e lunghe poesie che come un coltello scuoiano, spellano, scavano nei nervi e nella carne dell'autore, uomo tra gli uomini del nostro tempo, perchè tramite dolore e sofferenza il poeta offre se stesso al mondo e agli occhi e alle menti di chi vuole entrare nel suo animo.

Il mondo descritto è lo stesso dei suoi romanzi capolavoro (Le particelle elementari, Estensione del dominio della lotta, La possibilità di un'isola tra i più belli, fondamentali da leggere per una persona di inizio millennio), le temtaiche quelle che da sempre sconvolgono l'uomo: il dolore esistenziale, la fondamentale solitudine umana anche nella compagnia, l'amore come unica via di scampo che però è negato sempre e comunque da una società che vive di lotta sociale, di apparenze, di vacuità degradante.

Forse allora solo il sesso può salvare l'uomo? Il sesso vive, palpita, si annusa in ogni pagian di H., ma è un sesso freddo, tecnico, una mera ginnastica genitale senza slancio, senza scopaggio cerebrale, prima e unica via alla conoscenza reciproca, e che si conclude con un coito glaciale e un allontanarsi immediato dei due corpi.

Quind? Quindi cosa ci resta? Nulal frose, forse il senso di una felicità irraggiungibile, decantata dalle grandi religioni e dalle filosofie, ma alla fine è una felicità che, coem nel supplizio di tantalo, è là a portata di mano, ma una volta sfiorata ci sfigge, evapora, diviene nebbia umana.

Tutte le 400 pagine del libro (saggio? romanzo? raccolta poetica? tutto ciò insieme!) sono da divorarsi come un freddo panino alla cotoletta di uno squallido bar di periferia (che sia Calais, Dignone, Milano, poco cambia), ma due momenti sono defintivi e necessari: la distruzione dei grandi cosiddetti classici (Jacques Prevert è un coglione è il titolo di un devastante mini saggio) e infine, soprattutto, l'agghiacciante teoria/pratica per schedare ogni singolo essere umano adulto, quasi fossimo marionette inutili nelle mani di dei irraggiungibili e sadici, che in chiusura di questa mia recensione credo sia necessario citare.

"Meditando sulla numerizzazione progressiva del mondo, elaboro il progetto di un numero sessuale normalizzato riclacato sul principio del numero della previdenza sociale con 13 cifre. Il sesso sarebbe codifcato su un carattere, l'anno di nascita su due; poi verrebbero la statura e il peso (cinque caratteri). Per le donne, il sistema usuale di misure (giro fianchi-giro vita-giro petto); per quanto riguarda gli uomini lunghezza e diamtero del pene in erezione. Su queste basi, una donna potrebbe essere codificata su 14 caratteri, un uomo su 12 (il che conferma l'opinione corrente sulla maggiore complessità della donna). A mo' di esempio, ecco i numeri sessuali normalizzati di alcuni amici: 159173651704, 26116144875585, 164168581405."

mercoledì 15 dicembre 2010

LATTE VERSATO - Chico Buarque


Durante il mio soggiorno aostano entrai in una di quelle rare librerie che ancora vivono di passione, e scambiai due chiacchiere con il libraio chiedendogli un consiglio su qualche scrittore brasilaino contemporaneo che non fossero sempre i soliti (Amado, Guimaraes Rosa, o il terrribile prezzemolino Coelho) e mi parlà di "Latte versato", di Chico Buarque de Hollanda, da me conosciuto come cantante. Ritornato a Mestre lo cercai, lo comprai e giusto oggi l'ho finito di divorare.



Quest'opera è un tuffo nell'ironia che scioglie il dolore, nella joi de vivre che cela la malinconia, nelle splendide contraddizioni d'uno splendido paese, il Brasile appunto.

Eulalio d'Assumpção è un centenario che giace moribondo sul lurido letto di un ospedale pubblico di Rio de Janeiro, finito lì perchè, mentre si stava facendo una doccia, era caduto rompendosi il femore poichè si stava masturbando contro la parete del bagno perchè gli era apparsa la sua ossessione, la moglie Matilde, mulatta sensuale e libertina, che, sposata diciassettenne da giovane dopo pochi mesi era sparita nel nulla lasciandogli un neonato di pochi mesi, gettandolo nella disperazione e tormentandolo con sue apparizioni.



Il romanzo è un continuo flashback sulla vita di quest'uomo, che vede disgregarsi la fortuna della sua antichissima e nobile famiglia brasiliana, che vede il declino anche morale di nipoti e bisnipoti, e che appunto ricerca per gli 80 anni di vita rimasta, sempre mantenendo totale fedeltà, la moglie che lo aveva abbandonato.

Di lettura agevole, rapida e convulsa, vi farà sorridere davanti alle disavventure quasi fantozziane della famiglia e dei personaggi che affollano le sue pagine, vi faraà incazzare per le ingiustizie e i comp0ortamenti indegni degli esseri umani, vi farà piangere perchè è anche un lamento dell'abbandono sentiemntale di un uomo che "aveva la sensazione di possedere un desiderio potenziale equivalente a quello del padre, per tutte le femmine del mondo, sebbene concentrato in una donna sola", Matilde apputno, che a suo modo dà il titolo al romanzo (e potrebbe essere stato altrimenti?)

sabato 11 dicembre 2010

PROMESSE CONIUGALI (ovvero una storia lumbarda del XXI secolo in XIV capitoli al fin di smontar quell’ebete del manzoni)



Lucia, casta e virginea fanciulla bergamasca, fidanzata con Renzo, giovane comasco ricamatore in una losca azienda di cinesi a Lodi, nonchè latente omosessuale innamorato del vecchio parroco del suo paese, tale Ambrondio, viene rapita da Rodericus, pornodivo e culturista norvegese, che la porta nella sua villa sul Lago Maggiore dove passano notti indimenticabili.

Mentre Lucia e Rodericus giocano a twister a letto, Renzo, accompagnato dai suoi due amici Cassius e Mentula, nottetempo cerca di infilarsi nella canonica per soddisfare le sue malate bramosie, ma Ines, la mamma di Lucia, vecchia ex prostituta d'origini andaluse, preoccupata più delle tendenze del futuro cognato che del rapimento della figlia lo pedina.
Scopertolo a brache calate davanti al letto di Ambrondio, lo mette in fuga con un coltello a serramanico, e Renzo prende la strada di Milano per evitare l'evirazione.

Con Renzo in fuga, Ines si rammenta della sua povera Lucia, sempre intenta a scoprire nuovi mondi dell'eros, e decide di fare un salto da un suo vecchio cliente, Cristobal, padre gesuita di Coimbra, noto puttaniere in gioventù, perchè vada a parlare con Rodericus. Il vecchio padre, oramai sifilitico, accetta di buon grado e giunge nella villa neoclassica del pornodivo norvegese. Qui, mostrandogli il suo corpo disfatto dal mal venereo, lo convince a lasciar libera la fanciulla, non più casta nè virginea, e insieme si muovono verso Monza, per cercar di raggiungere il fuggitivo Renzo.

Renzo, giunto a Milano, incontra un gruppo di punkabbestia a Porta Genova e, viste le sue inclinazioni, fa subito "profonda amicizia" col capo, Borromea, transessuale di Fortaleza chiamata nel giro "O Cardinal" per il suo amore per gli abiti talari rossi. Nel frattempo Lucia e il sifilitico Cristobal, stanchi del cammino, si fermano a Monza nel monastero di Frau Gertrud, vecchia mistress bavarese, non sapendo a cosa vanno incontro.

Renzo passa una settimana tra notti all'addiaccio in Stazione centrale e furtarelli a negozi di cinesi e squallidi ipermercati di periferia, fino a quando una notte confessa il suo amore a Borromea, ma il viados gli confessa che il suo cuore è già di un altro... il nostro povero ricamatore in lacrime fugge disperato e vagando per losche strade di periferia giunge in zona San Siro.

Intanto a Monza Lucia subisce per una settimana le sevizie della sadica Gertrud ("attenzioni" che alla nostra fu casta e virginea fanciulla parvero piacere assai) ma Cristobal, stufo che nessuna monaca lo badasse, chiama il suo vecchio amico d'infanzia Gennaro "il SenzaNome", capoclan di Afragola, che con un commando irrompe nel monastero, uccide le sante donne a mitragliate e porta via i due nostri eroi, direzione Milano.

Renzo, non potendo sapere che la sua amata era ormai divenuta una ninfomane e viaggiava alla sua ricerca con un sifilitico e un camorrista, incontra nel suo vagabondare un gruppo di buskers catalani, i Los Bravos, il cui capo, tale el Grisù (chiamato così per i suoi gravi problemi di aerofagia) lo ospita nel loro tendone, frequentato da prostitute, tossici e sbandati vari, insegnandogli l'arte del giuocare con le clave.

Periglioso fu il viaggio del trio:da Monza a Crema furono perseguitati da Azzecca Bottoni,temibile testimone di Geova,alla fine strangolato da Gennaro.A Sesto S.Giovanni incrociarono Primo Carneade,energumeno calabrese che giusto per non farle perdere esercizio violentò Lucia su un albero mentre Cristobal riprendeva il tutto col suo I-Phone,ma alla fine giunsero presso una strana tendopoli vicina a S.Siro.

Grazie a El Grisù Renzo era ormai diventato un busker molto ricercato, che aveva ritrovato la via dell'eterosessualità grazie a Cecilia, detta "La Peste", una diciassettenne campana tutta peperoncino e lascivia, che l'aveva irretito in un amen. Tutto pareva esser idilliaco quando presso il lercio tendone dei Los Bravos giunse uno strano terzetto: un incartapecorito frate sifilitico, una fu virginea fanciulla mutata dalla vita in ninfomane e un vecchio camorrista sfregiato...

Lo sguardo di Renzo copulante con Cecilia cadde sugli occhi lubrichi di Lucia che saettarono verso di lui appena vistolo. Cecilia capi al volo e si gettò sulla ragazza taglierino in mano, ma venne fermata da Gennaro che le spezzò il polso facendola innamorare di lui all'istante per i modi galanti. Lucia giunse davanti a Renzo e schiaffeggiatolo lo possedette là, mentre Cristobal applaudiva, non sapendo ciò che stava per accadergli.

Lacrime scendevano dagli occhi di padre Cristobal a quella visione: Renzo finalmente violentato da Lucia e Gennaro "Il SenzaNome" e Cecilia "La Peste" in idillio d'amore gli fecero rammentare la sua giovinezza quando, seminarista, nessun bordello di Coimbra era passato indenne dall'instancabile fantino. Troppe furono le emozioni per quel vecchio ormai segnato dalla sifilide, e il cuore gli esplose senza dolore, facendolo cadere nella fanghiglia del tendone.

Cristobal era morto, il suo corpo già roso dai ratti di fogna che vagavano presso il tendone, Renzo e Lucia finalmente riuniti, Gennaro e Cecilia due piccioncini. El Grisù, triste nel vedere la sua famiglia di disperati accattoni sciogliersi, si girò per andarsene, ma in quell'istante apparve Borromea, il viado amato da Renzo, che da sempre segretamente fremeva per lui. Si guardarono, si presero per mano e insieme si mossero verso una nuova vita assieme.

I miei lettori vorranno sapere come finirono le triste storie. Gennaro e Cecilia morirono in un regolamento di conti per lo spaccio di supposte al crac, Borromea e El Grisù coronarono il loro amore gay in quel di Rotterdam. E renzo e Lucia? Beh, Ambrondio, ormai debilitato dall'alzheimer, li sposò, ebbero due bei bimbi, ma Renzo finì per essere schiavizzato da Lucia, novella Semiramìs del Lago di Como...

Questa conclusione, benché trovata da merdosa gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di cazzarla qui, come il sugo rancido di tutta la storia. La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, beh, allora, potete davvero andarvene tutti affanculo!

FINIS

venerdì 3 dicembre 2010

LA BOTTEGA DEI MIRACOLI - Jorge Amado


Da tempo cercavo un libro che mi esplicasse meglio l'affascinante cultura umana e religiosa del Brasile: il candomblè, gli Orixàs (le divinità afro-brasiliane) e il sincretismo con i santi cristian, ma nessun saggio trovavo, così chiesi consigli sia in librerie sia a una mia amica e giunsi ad avere tra le mani ed aprire questo romanxi di Amado.

Come altri romanzi sudamericani e brasiliani letti, l'inizio risulta sempre pesante, per l'amore tutto latino-americano dell'ampollosità, del barocco, delle infinite descrizioni, che se nel cuore di un testo risultano affascinanti, all'inizio possono intimorire; ma superata l'erta iniziale, dopo vi si apre un universo in cui immergersi.

Salvador de Bahia, anni '70: una città, un popolo piange la morte di Pedro Archanjo, mulatto, bidello universitario ma etnologo tra i più vivi, babalorixa, amico di tutti, padre di figli sparsi nel mondo.

Partendo da questo elemento, la penna di Amado ci traccia con maestria, attraverso la vita del protagonista (ahimè inventato: non cadete nel mio sbaglio di crederlo esistito e passare ore a cercarne informazioni in rete!) un maestoso affresco della vita, dei colori, delle usanze e del dolore del popolo brasiliano.

Il romanzo è una saga famigliare, o meglio una saga plurifamigliare dal mometo che l'amore libero domina su tutto e tutti, e ogni bambino è figlio del popolo, non importa chi ne siano i genitori naturali; è un saggio sulla religione brasiliana che ci viene presentata attraverso i riti, le figure, le divinità; è un dipinto fatto di colori (i tramonti sull'oceano, la pelle dei protagonisti, i colori della città) e di odori (i profumi dei cibi, delle spezie, l'arome della cachça sempre presente, il profumo di rosmarino dei corpi di affascinanti ragazze mulatte); ma è anche un dolente lamento sul razzismo umano, sulla bassezza dell'uomo bianco che si vuol porre come assoluto dominatore di un mondo non suo, e un inno alla ribellione e alla libertà, con la teoria di fondo che solo il meticciato può salvare il mondo, perchè soltanto incrociando all'infinito culture, sangue, baci si può giungere alla VERA razza pura, la razza umana meticciata, nucleo fondamentale di tutte le ricerche di Archanjo.

Entrare in questo romanzo è come fare una passeggiata nel cuore del Brasile, nelle sue vaste contraddizioni, nella sua impareggiabile bellezza e nel suo unico fascino, sempre condotti per mano da Pedro Archanjo che "non è uno solo, ma vario, numeroso, multiplo, quarantenne, giovanotto, ragazzo, vagabondo, buon conversatore, buon bevitore, ribelle, sedizioso, organizzatore di scioperi, agitatore, suonatore di chitarra e chitarrino, innamorato, tenero amante, stallone, scrittore, scienziato, uno stregone. Tutti poveri, con la pelle scura, e civili"

mercoledì 1 dicembre 2010

O DOGMA

O amor
è uma mulher
que nunca decepciona,
os quais olhos
pretos
são como a lua
cheia na noite escura,
brilhante e feliz.

E’ o fogo na casa do pobre,
o fumo dum cigarro
nas esperas longas
da vida.
E’ o oxigènio na profundidade
do oceano:
precioso
vital
amado.

Aqui està e este è
o unico dogma
das todas as pessoas
humanas:
Amor è o quem è amado.

domenica 17 ottobre 2010

STILL LIFE - A short poem


La lungimiranza

di foglie d'acanto

dialoganti

con l'essenza di rabarbaro fuxia che

stilla

schiumoso

da un'ossidiana

calantesi dal terrazzo d'un ex manicomio

tetramente

illuminato

da lune oscillanti

nel nero-blu

del cielo

a caduta libera

sulle teste di giovani uomini

che si rincorrono

sull'asfalto in fiamme

d'antiche

città

decadenti

mercoledì 13 ottobre 2010

Habemus Papam!


Nuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam! Eminentissimum ac reverendissimum Dominum, DOMINUM MATTEUM, Sanctæ Romanæ Ecclesiæ CARDINALEM DONATIONUM, qui sibi nomen imposuit AVIS PRIMUS.

domenica 19 settembre 2010

RECENSIO - J. G. Rosa, "Grande Sertao"

Da un po' di tempo, per questioni affettive e di curiosità mie personali, mi sono voluto avvicinare alla letteratura brasiliana, a me del tutto ignota prima. Un giorno, passeggiando come spesso faccio per Feltrinelli, mi sono imbattuto in un libro, quasi fosse stato lui a chiamarmi: l'ho preso in mano, guardicchiato, aperto, annusato e alla fine ho deciso di prenderlo, per poi scoprire a casa che viene considerato la vetta più alta di tutta la letteratura brasiliana. Insomma ciò che cercavo mi ha trovato, e nella sua forma probabilmente più alta, e così ho deciso, avendolo terminato giusto poco fa, di lasciar traccia dei miei pensieri. tale libro è

João Guimaraes Rosa, "Grande Sertão"

Subito dico che è un romanzo di non facile lettura, per la mole (500 pagine), per la forma (nessuna divisione in capitoli o paragrafi, ma un lunghissimo fiume di parole, quasi joyciano nel suo essere, quasi un Rio delle Amazzoni che brama eroticamente di raggiungere l'oceano dove esplodere) e per il linguaggio (che il traduttore Edoardo Bizzarri ha magistralmente reso, conservando le peculiarità innovatrici e fantasiose linguistiche di Rosa, che alcuni critici hanno definito l'Omero, il Virgilio, il Cervantes e il Joyce di Brasile.
All'inizio fu dura anche per me, ma sono persona testarda in ogni cosa della mia vita, e la sfida era aperta e DOVEVO vincerla e così ho proseguito, e avanzando nelle parole mi sono lasciato imprigionare e ho seguito la corrente sino alla fine, sempre più affascinato e conquistato.
Cos'è "Grande Sertão"? E' una storia di "jagunços", cioè di briganti, ma briganti nobili, eroici, erotici, passionali (il magistrale e necessario glossario posto in conclusione del libro li paragona ai bravi manzoniani, ma di loro gli jagunços poco hanno a mio avviso) che vivono la vita e muoiono la morte nei "sertoes", i deserti che si aprono nelle immense distese di quel paese staroridnario, meraviglioso, affascinante, terrorizzante che è il Brasile. Il sertão non perdona: caldo, polvere, pioggia, vento, ma anche distese lussureggianti di pascoli, fazendas, foreste, fiumi, che i nostri eroi attraversano.
"Grande Sertão" è Riobaldo, lo jagunço narratore, che in un interminabile susseguirsi di parole, descrive la sua vita, tra momenti di battaglie e scontri picareschi, profonde riflessioni sul senso della vita e delle vite, amori sessuali e amori di puro cuore, e continui ribaltamenti di alleanze, di attrazioni, di personalità.
Riobaldo non è solo Riobaldo, ma nel divenire degli eventi essi assume diversi nomi: è Tatarana (colui che suona il fucile come uno strumento) quando viene accolto dal capo del suo gruppo, è l'Urutù-blanco (velenosissimo serpente brasiliano) quando, ucciso dal tradimento di un suo uomo il leggendario capo Joca Ramiro, diventa capo assoluto dei jagunços rimasti in cerca di pura e sana vendetta sulle vipere che hanno osato disturbare l'ordine e la pace regnante nei sertoes, torna infine ad essere semplicemente Riobaldo alla conclusione della sua storia tutta narrata in prima persona a un misterioso "vossignoria".
Questo romanzo è anche romanzo d'amore, per le ragazze incontrate lungo i mille omerici viaggi nei mari di verde albero e giallo sabbia, per la ragazza promessa sposa Otacilia, uno sguardo da una finestra, un sorriso, una pelle lucente che intrappola il cuore di Riobaldo, ma è anche l'amore per un suo misterioso compagno sin dall'infanzia, Diadorim, figura emblematica, misteriosa e che sarà il colpo di scena conclusivo ribaltante il tutto.
Insomma, è un romanzo che va affrontato, pur nella sua difficoltà, perchè è affresco di vita umana, con tutte le sue debolezze, perchè è un acquerello sulla vita di un certo Brasile misterioso, affascinante e in fondo anche magico (Dio, Satana, natura: ogni entità spirituale avvolge la vita dei jagunços sempre, in ogni loro attimo) e perchè, come Luciana Picchio afferma in quarta di copertina: "questo libro magico [...] è forse il dono più grande che l' America Latina del realismo magico e il Brasile della parola iridata hanno fatto in questi anni a un' Europa di disseccato cerebralismo"
Appunto: contro il cerebralismo, la scientificità, il raziocinio, abbandoniamoci e abbandonatevi alla magia e alla parola che è anche disegno oltre che grafia di questa opera. ne vale la pena.

martedì 17 agosto 2010

curiosità linguistiche


osservavo incuriosito che il cognome di PESSOA, che nella vita ha creato diverse "persone" che immaginava scrivessero le sue opere dando loro nomi differenti, in portoghese significa proprio PERSONA... nomen omen?

giovedì 29 luglio 2010

La Commedia secondo Borges


"Morta Beatrice, perduta per sempre Beatrice, Dante giocò con la finzione di ritrovarla, per mitigare la tristezza; io personalmente penso che abbia edificato la triplice architettura del suo poema per introdurvi quell'incontro" [J. L. Borges]
Mi hanno commosso queste parole, sognanti un amore che davvero "omnia vincit"...

martedì 29 giugno 2010

RECENSIO - J. Coe, "La casa del sonno"

Dopo aver letto altri romanzi non male, ma che non hanno lasciato segni evidenti dentro di me, torno dopo un po’ di tempo oggi per presentare un libro davvero straordinario e che consiglio a tutti:

J. COE, “La casa del sonno”, Feltrinelli.

Già sin dalla mera architettura narrativa il romanzo si presenta come un piccolo gioiellino, con salti tra presente e passato, che si alternano tra capitoli pari e quelli dispari, e con le varie sezioni (che seguono le fasi del sonno scientificamente studiate), collegate tra loro dallo stesso gruppo di parole che però si riferiscono a tempi diversi.
Ma oltre all’architettura generale, anche l’arredamento di storie, personaggi, luoghi che si incrociano, si ritrovano, si perdono e si incontrano rendono il lavoro di Coe un lungo andirivieni nella mente umana e nel senso del tempo che si perde senza speranze (vago richiamo, probabilmente, a “Gli anni” di V. Wolf) e che tiene il lettore attaccato, ora con un sorriso, ora con una lacrima, ora con un moto di rabbia per ciò che sarebbe potuto succedere e non è stato, sino all’ultima pagina.
I personaggi (il disperato innamorato Robert, l’archetipo di scienziato pazzo Gregory, la dolcemente folle Sarah, il novello Ulisse Terry, alla ricerca eterna di un film del neorealismo italiano, forse inesistente e di cui esiste solo un unico fotogramma) sono pupazzi in balia del tempo, pupazzi che però cercano sempre la loro realtà e la loro natura anche perdendosi e mutando radicalmente forma.
La genialità di Coe si rivela anche nella sapiente costruzione a scatole cinesi di tutto l’intreccio, nella presenza di momenti di grande comicità e in due trovate indimenticabili: una finta breve autobiografia con la presenza di note al testo saltate che presentano conseguentemente commenti dissacranti, in un gioco che solo la potenza della lingua può permettere, e la consegna all’appendice conclusiva, extra narrativa, di tre documenti (una poesia, una lettera e una trascrizione) che svelano definitivamente ciò che ancora ci era stato lasciato nell’ombra nebbiosa del mistero.
Concludendo, un romanzo che consiglio caldamente a tutti, perché perdersi nei labirinti della mente umana, che sono in fondo anche i nostri, è una possibilità anche di trovare noi stessi.

venerdì 25 giugno 2010

The solitary knight's lament


Oro non vo cercando
il mio cammin mai fu perso
mai vecchiaia mi coglierà
nè gelerà lo spirto mio
il fuoco celato s'iinnalzerà
ogn'ombra verrà scacciata
il mio brando invitto mai si piegherà
e la corona mia d'amor sarà!

Panismo


Trembling
like a wild caged lion
like a solitary tree
on a wind-beaten Scottish hill
like an eye
watching its death
but raging
like a dragon
defending its cradle
like a man
fighting for his honour
and his love
So am I

martedì 15 giugno 2010

The River

Sogno di un fiume
che spezzi le catene
schiavizzanti
di natura e fisica
anelante all'origo sua
e risalga dallo standardizzante mare
alla sorgente
per ritrovar
se stesso
urlando a noi umani
VIVETE!

lunedì 24 maggio 2010

HERMES (ovvero Medaglioni divini - chapter 5)


Eccoci giunti al capitolo forse per me più arduo, com’è sempre arduo parlar di se stessi, cioè d’Hermes! Mia mamma era Maia, una dolce ninfetta stuprata da Apollo in una delle sue fasi di bestialità (codesto accaduto venne poi più tardi decantato da quel gran zuzzurellone di Schopenhauer quando scrisse “Il velo di Maia”, intendendo chiaramente l’imene spezzato di mia mamma).
Nacqui e subito fui precocissimo nei miei giochetti: dopo un giorno inventai la lira, dopo 7 giorni l’ECU e dopo un mese avevo coniato l’Euro, ma mia mamma mi fece notare che i soldi non servivano a un cazzo di nessuno, così bruciai tutto e inventai la lira intesa come strumento musicale, donandola a quel gran farabutto di mio “padre” Apollo, cui però, rincoglionito dal suono soporifero dello strumento, fottei la mandria immortale e me ne andai in Arcadia dove presi dimora.
Inizia a frequentare un po’ di gente stramba, ladri, truffatori, travestiti e puttane, ma sempre con signorilità ed eleganza, e infatti a breve un mio caro amico di sbornie d’”oinos kaì mellos” (brodaglia dolciastra e alcolica, sorta di Redbull ellenica), un vecchierello cieco che mi disse di chiamarsi Umero o qualcosa del genere (son vecchio, non ricordo bene) mi dedicò, una sera sbronza, una poesia nella quale mi definì “gentilmente astuto, predone, apportatore di sogni, osservatore notturno, ladro ai cancelli, che fece in fretta a mostrare le sue imprese tra le dee immortali”.
E infatti, amici miei carissimi, riuscii a conquistare la dea delle dee, Afrodite, riuscendo a convincerla che ero un noto imprenditore edile, visti tutti i mobili e le vettovaglie che spacciavo nel mio negozio “Cose d’altre case”, e sfoggiando le mie scarpe NIKE con ali dorate e svolazzanti ai piedi (eh già, tesori miei, fu grazie a me che Afrodite per prima scoprì la passione che fu poi tutta femminile per le scarpe fashion e sexy, e io scoprii e inventai quella nobil arte nomata poi “Feticismo” o, per i più colti, “Retifismo”). Ci sposammo di lì a pochi mesi: ahimè fui spesso fedifrago (ma la mia natura di ingannatore era qualcosa che non riuscivo a tenere a bada), collezionando 18 amanti e 13 figli da donnine, ninfe e donnacce varie, ma il mio amore fu sempre per Afrodite.
Suo padre però non fu mai contento della nostra unione, e ahimè i nostri figli prediletti ebbero sempre delle sfighe fantozziane (bell’aggettivo… non so cosa cazzo voglia dire essendo io di 7000 anni fa, ma mi garba): il primogenito Ermafrodito (decisamente un idiota) si innamorò a tal punto di quella sciacquetta di Salmace, che alla richiesta di non separarsi mai da lei, furono scissi in un’unica persona, e così mi ritrovai con un figlio che aveva il cazzo a destra e la figa a sinistra, e che morì totalmente folle perché passava tutto il tempo a scopare se stesso.
Anche col secondo non andò bene: appena nato chiesi alla nutrice perché non gli avessero tagliato il cordone ombelicale che gli penzolava a terra, ma la risposta mi raggelò; ciò che vedevo del mio piccolo Priapo non era il cordone, ma era il suo membro già lungo una settantina di centimetri… A quel punto decisi che era meglio lasciare la mia consorte con cui rimasi in ottimi rapporti, e nel mio vagabondaggio incotrai una dolce verginella di nome Driope.
Eran mesi che non consumavo, ci accoppiammo come bestie, ma dopo nove mesi la maledizione dei miei figli non era terminata: il mio terzogenito (che per l’impossibilità di mettergli i pannolini chiamai ironicamente Pan) al corpo d’uomo univa gambe e zoccoli di capra; provai a spiegare a Driope che era colpa d’averla voluta fare alla pecorina (io la disdegnavo come cosa, ma lei era decisamente maialetta), ma lei in tutta risposta mi diede uno schiaffone, emise un urletto e fuggì via, lasciandomi come ragazzo padre quella mostruosità da allevare.
Per fortuna vagabondando, e crescendo Pan, ritrovai e rispolverai le mie vecchie doti d’imbroglione e col tempo misi su in Etolia una piccola agenzia mille pratiche, mentre mio figlio aprì un casino-osteria dove, la notte, ce la spassiamo tuttora in compagnia, alla faccia di Driope che dicon esser diventata cantante di grido.

martedì 18 maggio 2010

ATENA (ovvero Medaglioni divini - chapter 4)


Eccoci alfin giunti alla vera storia di chi mi ha ispirato il gruppo: oggi parleremo di Atena, poi storpiata latinamente in Minerva.
Tutto ebbe inizio una notte nella quale Zeus, di ritorno dalle sue solite scorribande a donne e ragazzine carie, ebbe dopo secoli un’improvvisa richiesta dalla mogliettina di giacere con lui. Zeus però, sfinito dalle 27 ragazze sverginate nelle poche ore precedenti, finse un improvviso mal di testa per evitare di farsi scoprire. Era, che fessa non era, attese che il marito s’addormisse e con le sue doti magiche gli procurò un vero mal di testa che perseguitò il padre degli dei per giorni e gironi, come avesse un palo nel cervello. Disperato un giorni si aprì il cranio a testate e con somma sorpresa uscì una splendida fanciulla armata di scudo e lancia (“ecco cosa cazzo era quel palo” pare, secondo ciò che ci tramanda Esiodo, fu ciò che esclamò Zeus).
Questa nascita fu inattesa da tutto l’Olimpo, la povera ragazza vagava come una disperata per tutto il palazzo, facendo disperare chiunque perché, vista la profonda intelligenza, tediava ogni divinità che incrociava con lunghissimi discorsi filosofici e sillogismi aristotelici (N.d.a.: A quel tempo Aristotele ancora doveva nascere…) e così papà e mamma la cacciarono a pedate in quel di Atene, città della quale portava il nome (i genitori eran tifosi dell’Athletikon Panathinaikon di lancio del giavellotto) perché tediasse gli umani aprendo un’università privata (da quel dì furon chiamate “atenei” non per altro) e facesse vivere in pace i consanguinei superni che le avevano affibbiato il dolce nomignolo di “Pallade” perché le rompeva sempre a tutti.
All’inizio gli affari della nuova attività di Atena andavano bene, frotte di giovincelli attici andavano da lei a farsi maciullare il cervello (pare che ad Atena sia da attribuire l’invenzione della ridente pratica nomata “Dominazione psicologica”) con i suoi ragionamenti senza senso, finchè un giorno accadde il fattaccio. Una favolosa ragazza lesbica, di nome Aracne, sentito parlar molto bene della dea (e innamoratasene) decise di far colpo su di lei sfidandola sulla manualità e le propose di vedere chi sarebbe riuscita prima a creare un centrotavola a forma di Ford Ka. Putroppo per Aracne, tali aggeggi erano del tutti lontani ancora dall’esser immaginati, ma la dea, in quanto dea, da dea tutto sapeva e creò alla perfezione il centrino. Per punire la giovincella Atena decise di mutarla in gioviale ragnetta nera grossa e pelosa, ma il padre di Aracne, sindaco della città all’epoca DELLA corrente andreottiana… (N.d.a.: EH GIA’… ESISTEVA Già A QUEL TEMPO AMICI MIEI AMATISSIMI) fece sì che Atena venisse cacciata dalla città.
Da quel momento inizia un lungo peregrinare per isole città e paeselli, in cerca di lavoro casa e manico, finchè non conosce in quel d’Itaca il dottor Ulisse, noto latin-lover, nonché fraudolento, mentitore e corruttore.
I primi mesi furono meravigliosi: gite in barca, appassionate notti d’amore, cene a base di pesce persico e anguille dell’Egeo e promesse d’etterno amor… ma Atena a un certo punto iniziò a mostrare spesso a Ulisse il neonato Eros della sua sorellastra Venere, il che produsse nel nostro eroe strani singhiozzi, mal di testa notturni e spossatezze a comando. Un brutto giorno, per liberarsi dal rischio che sentiva aleggiare nell’aere, Ulisse finse d’aver scoperto la sua vera natura d’omosessuale e confessò all’amata donzella che per non farla soffrire oltre si sarebbe ritirato per sempre nella ben nota isola dei Froci, poco distante da Itaca.
Questo colpo fu terribile per la nostra dea che perse il senno, fuggì e vagò disperata per tutto il mondo; oggidì pare che si aggiri scarmigliata, con le vesti strappate e il seno graffiato lungo le fredde coste delle isole Svalbard, cedendosi una valchiria in cerca di Odino…

mercoledì 12 maggio 2010

APOLLO (ovvero Medaglioni divini - chapter 3)


Per correttezza, coerenza e continuità didattica (che non vuol dire un cazzo ma fa tanto tanto figo) oggi presenterò Apollo (vulgo “Febo”), gemello della sopracitata Artemide.
Sin da subito dimostrò la sua pecca più grave: bramosia sessuale come mai s’era vista prima nella storia umana: sin dopo il primo mese il pupattolo era uso praticarsi continue sedute onanistiche (che per inciso causarono una lunghissima glaciazione in tutta l’Ellade, ricoperta da un manto biancastro e molliccio di neve curiosa per mesi) che portarono allo sfinimento del papino Zeus.
Provarono quindi in ogni modo a placarne la sete sessuale e dopo averlo rinchiuso fino al 15° anno d’età nel sacro tempio Aneros dove insegnavano la vita meditativa (per inciso tutti i 123 sommi sacerdoti impazzirono, così come le 15 vacche, le 4 pecore, il toro, l’orso bruno e la pulce ammaestrata, tutti violati in qualunque modo dalla furia del giovine), decisero di offrirgli in spose 9 splendide vergini Muse, da usarsi una per ogni ora a rotazione. Purtroppo in breve tempo queste dolci e divine ragazze non ressero più sbroccarono totalmente e iniziarono chi a cantare senza sosta, chi a ballare, chi a recitare farsi senza senso, chi a urlare e battersi il petto strappandosi i capelli.
Zeus capì che il figlio, ormai 19enne, alto muscoloso biondo ma totalmente pazzo, doveva esser sedato prima che distruggesse l’universo, decise di viziarlo, novello figlio di papà alto-borghese, e gli comprò una fuori serie in edizione unica: la Suncar, detta dagli ignoranti e plebei umani CARRO DEL SOLE. Piazzatolo sopra, Apollo sfrecciava come un mentecatto a velocità folle (provate voi a fare il giro della terra in 24 ore e poi mi saprete dire…) senza più sentir il peso ingombrante del suo membro perennemente rosso e pulsante. Ma tutti i giochi dopo un po’ stufano e così Apollo scaricò la Suncar al primo malcapitato e fuggì via…
Intraprese così per secoli folli girelli per il mondo, inaugurando, con ogni fanciulla che malauguratamente gli fosse capitata sotto il naso, quella curiosa e stramba pratica dell’ Human-object. Conobbe la dolce Daphne, che non voleva sottostare alle sue richieste di strane pratiche sessuali, e la mutò in Albero; incrociò la sensuale Clizia, la quale si rifiutò categoricamente di ascoltarlo mentre suonava la sua “Composizione per cetra sola in do minore” della durata di circa 16 ore, e la mutò in girasole; si scontrò con un vecchio omosessuale tessalico che voleva offrirgli una cena a base di escargots, e dopo averlo appeso a un albero gli tolse la pelle per farsene una custodia per la sua tanto temuta cetra.
Dopo quest’ultima azione poco piacevole, Zeus e la matrigna Era si incazzarono violentemente e chiesero alla gemella Artemide d’andare a cercarlo nel mondo, per abbatterlo e darlo in pasto ai pesci sega (chi di onanismo ferisce, di onanismo perisce).
La caccia dura tutt’ora…

domenica 9 maggio 2010

ARTEMIS (ovvero Medaglioni divini - chapter 2)


Artemide, (poi doppiata dai plagiatori latini in Diana), dea della caccia, della luna e della notte (anche perché la luna di giorno era ben difficile vederla splendere, se non sotto effetto di pesanti allucinogeni che però erano tutti finiti in mano ai Sommi Sacerdoti).
Nata come gemella di Apollo, e ciò segnò tutta la sua vita. Apolli infatti era un po’ il figo del gruppo: ogni essere vivente che fosse donna, uomo, animale, minerale o vegetale gli si faceva infoiato incontro, e lui con membro eretto si buttava a pesce conscio della sua bellezza perfetta. La gemellina, bellissima come lui, ma dall’animo serio, dopo l’adolescenza optò per abbandonare la casa genitoriale e l’insopportabile parente stretto, rifugiandosi nei boschi e nelle foreste non prima d’aver chiesto alcune cosucce al papino Zeus (che al tempo era abbastanza influente, oltre che abile prestigiatore); ottenne così di restare per sempre vergine (le scene del gemello che copulava con ogni cosa gli fluttuasse attorno l’avevan nauseata), di avere sempre a disposizione cani da caccia con le orecchie basse (secondo alcuni autori e amici intimi della Nostra, questi cani in realtà erano giovani pastori disposti a tutto pur di stare vicino alla Dea che del gemello aveva preso la bellezza, e quindi se Venere si narra abbia inventato il facesitting, ad Artemide si rimanda il dog-play) e ninfe come compagne di caccia, da cui i dubbi sulla sua bisessualità, che alla luce del gemello pansessuale risultava cosa nobile e interessante, soprattutto per i poeti successivi.
Ottenuto ciò che voleva, compiuti i 18 anni (anche le dee avevan leggi da seguire) abbandonò il tetto genitoriale e optò per la vita nei boschi, accompagnata dalle sue fedeli ninfette, dai cervi, dei quali a scuola aveva imparato la lingua (un difficilissimo alfabeto, con tutti soli suoni semivocalici e nel quale ogni parola poteva avere 3 significati diversi), e dei suoi adoranti cani-umani.
Un solo uomo, ardito e coraggioso, tentò di conquistare il suo cuore: Atteone, incrociatola un dì nei boschi mentre cercava di uccidere Cappuccetto Rosso per salvaguardare i lupi che lei costantemente andava a molestare sessualmente, la vide mentre si faceva un bagno nel torrente. Era ovviamente splendida (era pur sempre una dea, mica cazzi!) e lui se ne innamorò perdutamente. Ebbe l’ardire di avvicinarsi a lei chiedendole un appuntamento per il sabato sera, proponendole un giro al lago e una cena a base di pesce. Artemide però di laghi ne aveva piene le tasche, era vegana e aveva notato in Atteone dimensioni non consone del membro sessuale (aveva vista 3D: era pur sempre una dea, mica cazzi!), scocciata e sbuffante lo tramutò in lupo, che venne subito notato da Cappuccetto Rosso che dopo averlo violentato lo portò a casuccia dalla nonna per scuoiarlo e farsene un caldo e morbido scendi-bidet.
Dopo siffatto tragico evento, di Artemide in breve si perse ogni traccia e tuttora dicono si aggiri per boschi, praterie e foreste; le ultime notizie la dicono in terra abruzzese ad allevar Orsi marsicani imparandone la lingua (un difficilissimo alfabeto, con tutti soli suoni consonantici, la sola vocale ”U” e nel quale ogni parola può avere 5 significati diversi).

venerdì 7 maggio 2010

VENUS (ovvero Medaglioni divini - chapter 1)


Venere (o Afrodite per gli ellenici), chiamata dagli amici “callipoda” perché si racconta avesse un fondoschiena da urlo, anche se nessuno ci ha mai spiegato se intendessero dal punto di vista estetico (era forse amante del facesitting) o perché avesse una fortuna spropositata, nacque da due testicoli recisi e gettati nell’acqua che così fecondata la fece sbocciare dentro una conchiglia, già adolescente sessuata.
Non amando sentirsi definire “figlia di due coglioni” si fece adottare da Giove e Giunone, che però, preoccupati dalle velleità di attrice porno-lesbo della giovine, decisero di darle marito per farle sfogare la sua irrefrenabile ninfomania, e la scelta cadde su Vulcano.
Il simpatico Vulcano (Vulky per gli amici) era un giovanotto nano, storpio, grezzo che amava girare per casa in mutande unte a martellare cose a caso perché voleva esser sempre sudato e sporco, e ciò a Venere non piaceva molto; un dì, passeggiando per Olimpia, la ninfomane incrociò lo sguardo di un baldo giovine, istruttore di body-building, ex Mister Olympia (appunto) e particolarmente violento e aggressivo, che rispondeva al nome di Marte e tra i due esplose subito la passione.
Tutto andò bene finchè Vulcano notò la pancia della mogliettina ingrossarsi e dopo 9 bei mesetti nacque un mongoloide con le alette che prese il nome di Amore; il marituccio, che ritardato lo era, ma non completamente cretino, capì che non era suo figlio e iniziò a spiare la moglie, finchè non la beccò a letto con Marte e, sfruttando le sue ampie doti di bondager creò una ragnatela di catene e lucchetti che imprigionò i due. Marte le spezzò con i denti (a Chuck Norris faceva una pippa) e fuggì imprecando contro Venere, Venere si incazzò e piantò il muso per 1268 anni al maritino che pure la riaccolse nella sua casuccia… di Amore si persero le tracce, ma si dice che tuttora vaghi a tormentare le anime e disturbare le vite dei poveri umani.

mercoledì 31 marzo 2010

RECENSIO - A. Nothomb "Le catilinarie"

Mi è venuta voglia di lasciar segno di quanto i miei occhi vedono sui fogli stampati che leggono, anche perchè di mio ho scarsa memoria e rischio di dimenticare in fretta. Quanto fu in passato ormai è andato: parto perciò dall'attualità e dall'ultimo libro letto.

A. NOTHOMB, "Le Catilinarie", Guanda Ed.

Come già i due suoi precedenti lavori letti ("Igiene per l'assassino" e "Metafisica dei tubi"), anche questo riesce a coniugare brevità (visivamente tutti i romanzi della belga francofona appaiono libelli) e profondità di contenuto.
Immaginatevi d'essere due simpatici vecchietti che decidono di passare gli ultimi anni della loro amorevole vita reciproca in pace e tranquillità nella casa dei vostri sogni, per poi scoprire che i soli vostri vicini sono due obesi squilibrati che iniziano a tormentarvi: voi cosa fareste?
Ecco, la Nothomnb parte da questo evento, alla fine avvenibilie a chiunque (alzi la zampetta chi non ha mai avuto vicini detestabili, antipatici, invadenti, e forse noi stessi lo possiamo esser stati per i nostri dirimpettai), per creare la sua solita ridda di eventi tragicomici, di meditazioni sul senso umano e sui rapporti che possono intercorrere tra differenti creature appartenenti alla specie di mammiferi bipedi cui tutti noi apparteniamo.
La vera eroina del romanzo è forse il personaggio più in ombra: la povera Bernadette, prigioniera doppiamente della sua jabbica obesità e del marito ottuso e sottilmente sadico e perfido, che però si dimostrerà il più fragile della storia.
Il protagonista Emile rappresenta altresì un ribaltamento del classico personaggio da romanzo di formazione: non il giovincello ignari della vita, ma l'anziano ricolmo di esperienza e affetti che al limitare della sua esistenza capisce che è giunto il momento di mutar attitudini e abitudini.
Nel complesso un romanzo che si lascia leggere con rapidità e interesse, che lascia sempre quel sottile dispiacere per la sua brevità, che però, ragionandovi, alla fine è un'arma in più in mano al folletto genietto della Nothomb (peccato solo, per mia passione personale, non sia fiamminga!!).

sabato 27 marzo 2010

IN DREAMS - carrellata per autoanalisi di qualche mio folle sogno notturno

1)Sono disteso su una spiaggia e parlo con dei cetacei non identificati (forse balene) riguardo al tempo meteorologico, e loro mi rispondono dando vita a un interessante dialogo.

2)Parlo con una ragazza olandese in Belgio, da me conosciuta e che mi piaceva (era stata la prima ragazza conosciuta durante la mia esperienza erasmus e si chiamava Roos); a un certo punto si mette a diluviare, la sua bianca t-shirt si bagna tutta e vedo che sotto appaiono tre tette.

3)Per fare la mia tesi di laurea devo tornare all'età medievale per intervistare Boccaccio e Petrarca, ma li trovo entrambi distesi a letto, morti da parecchio tempo e semi-mummificati, al che io scappo terrorizzato.

4)Assisto in presa diretta, tra gli astanti, al martirio di Sant'Agata, cui strapparono le tette; non risulta chiato se sono semplice spettatore o carnefice.

5)Sono a casa mia a Mestre, ho una pistola carica e senza sicura, pronta a sparare e la lascio in cameretta nella cesta. Esco, lasciandola là, col terrore che mia madre la tocchi e parta un colpo.

6)Vado in spiaggia con mio padre; ad un certo punto da un megafono escono strane voci (o forse suoni indistinti) e dal mare e dalla spiaggia stessa fuoriescono degli scheletri, al che scappiamo entrambi urlando. [fatto due volte identico a distanza di anni)

7)Esco dalla mia cameretta, vado in camera dei miei che non sono a casa in quel momento e guardando lo specchio del loro armadio vedo apparire due teschi

venerdì 26 marzo 2010

NATI SOTTO IL SEGNO DEL RETTO - Libera interpretazione vendittiana (perchè anche la volgarità, quando intelligente, è arte!)

(Venditti - Donazzon - Santangelo - Rutigliano)

Ti ricordi quella strada

eravamo io e te

e la gente che correva

e rideva dietro a noi

« anvedi che stronzi là in fonno

stronzi e rottinculo

e fiji de puttana

cha parono frocioni

e pure un po’ finocchi »

corri stronzo corri nun fermarte



Ti chiedevi che ti manca

una figa tu ce l’hai

e un culo se c’hai voja

e pure un par de zinne

nu me stà a rompe

rompere li cojoni

e vattene a cagà

che m’hai rotto er cazzo

coi tu’ discorsi

nati sotto er segno

nati sotto er segno der retto



Ed il rock passava lento

e io me ce pulivo er culo

e con un po’ de carta

me finivo er lavoro

ma tutto quel che resta e che vedo

è solamente merda

e piscio pe nnoi

che meritiamo n’artro cesso

piu’ lindo e largo casomai

nato sotto er segno

nato sotto er segno der retto



E Marina s’è stufata

oggi batte pa’ ‘a strada

pija poco e pure male

e s’è rotta de li negri

ma tutto quel che cerca e che vuole

è solamente cazzo



e un dito quanno c’è

sta grandissima bagascia

larga come nun lo so

nata sotto er segno

nata sotto er segno der retto



E Giovanni è un ingegnere

co’ problemi intestinali

ha bruciato la su’ laurea

a furia de scorregge

ma tutto quel che cerca e che vuole

è solamente figa

e un culo ‘ndo godere

ma comunque tutt’e due

stretti e lunghi un bel po’



FIJI DE NA GRANNE BAGASCIA



OOH ! OOH ! OOH ! AAH ! AAH !

giovedì 25 marzo 2010

SETTEMBRE

Settembre ti vide nascere
il dolce mese che uccide l’estate
per poi cullarla e piangerla tra le braccia.

Il vento che torna libero a soffiare dai monti
plasmò il tuo corpo perfetto
invidia delle divinità nell’alto Olimpo
che vista ti accolsero però nella loro schiera.

I mari tornano liberi a muoversi
ed entrando nelle tue vene reclamano
il tuo prezioso e disarmante sorriso.

Intingendo i raggi nella sua multiforme tavolozza
il sole, che bacia con sguardo nuovo la terra,
la ricopre di nuovi colori
che tutti gioiosamente entrano nei tuoi occhi
che li riflettono al mondo e a me
portando nuova gioia e voglia di vivere…

…come il dolce settembre che ti vide nascere

21 Aprile 2005

Ponte vecchio. Ovvero autoanalisi d'una storia mai nata.

Il primo fulmine spezzò in due il cielo e poco mancò che la sommità di quel quasi millenario campanile facesse la fine di un giocattolo nelle mani di un bambino un po’ troppo esuberante.....

Federico aveva probabilmente scelto il periodo peggiore per tornare a respirare l’aria della città da lui più amata, la città del giglio e della carne, delle aspirazioni vocali e dell’arte, ma questo ancora non poteva saperlo. Non voleva credere né poteva pensare che esistessero momenti nei quali il suo spirito non avrebbe dovuto aleggiare sugli antichi selciati di Firenze, ma per gli eterni ottimisti quale lui era anche la peggiore guerra non è altro che il preambolo di un nuovo arcobaleno.....

Come Lei si chiamasse non riusciva a scolpirselo nella mente; Martina forse, o ..Giulia..; ma il suo lato simbolico lo soccorse e negli occhi si creò l’..imma..gine della pace.. IRENE! Finalmente aveva il nome e ora doveva sforzarsi per rammentarlo e per non fare le solite, eterne brutte figure che ormai l’avevano reso simpaticamente famoso tra tutti i suoi amici.....

Irene era passata all’incrocio della sua vita il mese precedente, quando nello stanco ipnotizzarsi di fronte al monitor, dando vita una dietro l’altra alle sue Gauloises blu cui non riusciva più a staccarsi da che le aveva conosciute, come esse fossero (e tristemente forse davvero lo erano) la sua amante più fedele e spregiudicata.....

<..> ....

<..> ....

<..> ....

E furono i soliti, tanto noiosi quanto necessari, convenevoli che roboticamente tutti coloro che erano entrati nel novello labirinto di Creta che erano le chat ben conoscevano. Cosa cercavano? Cosa volevano? Un partner da scopare allo spasimo? L’amico del cuore o l’amore della vita? O il nemico da umiliare, sconfiggere, abbattere, annullare?....

Nessuno poteva saperlo, neppure loro, ma di certo Federico e Irene si piacquero subito. Avevano passati in comune, avendo entrambi lottato col peggior avversario che tutti possiamo conoscere, la solitudine sentimentale, e per entrambi la Via non poteva che essere l’Arte, letteraria, musicale, fumettistica non importava, ma l’Arte, dono più prezioso che tutti noi possiamo ricevere.....

Era chiaro a entrambi che DOVEVANO conoscersi al più presto per non lasciare che il fiore del cactus appassisse, e le possibilità c’erano tutte: lei era andata a Firenze per perfezionare le sue abilità nel disegnare storie e lui era appena stato licenziato dalla libreria dove aveva speso gli ultimi due anni e perciò viveva solo di tempo ormai.....

Accordarsi per la metà di dicembre fu la conseguenza della necessità reciproca di incontrarsi, soprattutto per Federico che da sempre viveva d’istinto e sanguignità (chissà, forse per questo amava così tanto Firenze i cui abitanti in ciò gli erano assai simili).....

I giorni passarono velocemente tra mail e messaggi per accordarsi, stuzzicarsi, cercarsi in ogni momento della giornata, e con le rispettive fantasie che volevano spingersi sempre un po’ oltre ogni volta di più.....

Finalmente giunse QUEL giorno e Federico entrò nel treno che l’avrebbe condotto da Lei entro breve: l’appuntamento era per l’ora di pranzo nel luogo delle gite liceali, sui gradini del duomo, e per un fugace istante tornò a quel tempo della memoria.....

Ma per una volta finalmente non era tempo della memoria, era tempo del presente, e incurante dei fulmini e della pioggia che gli schiaffeggiava i capelli rinascimentali giunse al luogo prestabilito e puntuale Irene giunse.....

LE LABBRA. ....

Le sue labbra furono ciò che colpì come un montante Federico che si presentò alla sua concittadina (ebbene sì, si conoscevano a Firenze, ma le loro radici erano per entrambi nel lontano mare di Trieste) finalmente nel suo corpo e non più con degli inumani caratteri di un monitor.....

Il giorno rincorse se stesso velocemente, Federico ed Irene ebbero tutto il tempo di parlare, di conoscersi e di fare progetti per quello che avrebbe dovuto essere un soggiorno troppo breve per ciò che le loro speranze avevano in mente.....

Davanti a una cioccolata calda, custode necessaria per il gelo che fuori li voleva abbracciare, Federico ed Irene scoppiarono in una fragorosa risata quando scoprirono che le iniziali dei loro nomi, sola cosa che alla fine possediamo veramente di noi stessi e degli altri, non erano altro che la sigla della città che li aveva visti conoscere, F ed I, Firenze!....

Rapidamente giunse il momento del commiato, un abbraccio e un bacio da amici; per altro, pensò Federico, era presto e ci sarebbero stati i giorni successivi. Ormai ne era certo, l’aveva trovata, aveva trovato chi avrebbe potuto togliergli quel peso ormai insopportabile d’esser solo, solo anche se circondato dai suoi amici più cari, solo anche se imbottigliato nel traffico dell’ora di punta.....

Con questi pensieri Federico spense la luce elettrica e quella dei suoi occhi, certo che il giorno dopo avrebbe fatto un altro tratto di quella terribile salita, non poteva non essere così!....

La sveglia che sempre si portava dietro fu inutile perché come avrebbe dovuto ricordarsi Firenze viveva ancora per molte cose nel medioevo, e il tempo era segnato dal suono delle campane del duomo che alle sette in punto richiamavano come otto secoli prima i cittadini al lavoro.....

Federico si alzò e svegliato dopo l’anima anche il suo corpo con l’acqua scese al bar per la colazione, momento sacrale per lui, ma nel far questo il suo cellulare che mai spegneva richiamò la sua attenzione. Era un messaggio di Irene e subito pensò che fosse il più dolce dei buongiorno che d’altronde attendeva, ma lette le parole di colpo si sentì un condannato al patibolo trainato sul carretto dell’umiliazione: Irene aveva scelto per il bene di entrambi che era meglio non si vedessero più perché lo aveva ..imma..ginato diverso da ciò che parlando con lui aveva scoperto.....

A Federico parve di precipitare di colpo nel burrone della montagna che stava scalando: cos’era successo? Perché? Era una persona difficile, senza peli sulla lingua da sempre e per scelta non temeva di esporre le sue antipatie e i suoi amori ( e lui o amava o odiava, difficilmente qualcosa lo lasciava indifferente), ma erano parole, erano le figlie dei suoi pensieri che essendo fatti di ..imma..terialità potevano comunque modificarsi nel tempo, e quante volte aveva poi cambiato opinione su qualcosa per un accadimento avvenuto a sorpresa!....

Ma Irene non volle sentire ragioni, aveva fatto una scelta ponderata e, forse troppo simile a lui, non aveva intenzione di ritornare su suoi passi: questo era e DOVEVA essere un addio e Federico non potè fare altro che chinare il capo ed accettare che ancora una volta, per l’ennesima volta, era stato sconfitto.....

Il suo sangue gli esplose nelle vene, e nei suoi sogni avrebbe voluto placarlo decapitando con la sua spada, come i grandi condottieri medievali, i prigionieri dopo una battaglia campale, ma sapeva ciò che dopo l’ira furiosa lo attendeva e perciò si chiuse nella sua stanza e catarticamente esplose in lacrime, lacrime liberatorie e purificatorie come la pioggia che il giorno prima aveva visto Federico ed Irene felici assieme raccontarsi le rispettive vite mentre si trascinavano a vicenda di locale in locale.....

Ormai quel che doveva succedere era successo e prima di sporcare l’amore che provava per Firenze con la macchia scura come la notte polare di quell’esperienza Federico decise di prendere il primo treno possibile per il suo mare triestino, ma ormai si parlava del giorno successivo in tarda serata.....

Le ore che lo distanziavano dalla sua dipartita furono difficili da superare: conosceva perfettamente Firenze come si conosce alla perfezione il copro della propria amata, e cercava in tutti i modi di girare per conoscere posti nuovi, per calpestare selciati ignoti ai suoi piedi, ma sempre tornava per ripassare nelle strade che li aveva visti assieme abbracciati, sempre gli sembrava di vedere i suoi capelli lontani tra il brulicare dei turisti, sempre sentiva il suo odore se qualche ragazza gli passava accanto.....

Il nemico andava affrontato frontalmente, quindi decise con coraggio di andare a bere la sua ultima birra e fumare l’ultima Gauloise fiorentine nel locale che appena conosciuti Irene gli aveva indicato come tra i suoi preferiti.....

Appena seduto finalmente il fantasma di lei scomparve dalla sua mente e FINALMENTE godette del freddo di quella birra nel freddo dell’aria e godette d’ogni boccata dei quella benedetta sigaretta.....

Il tempo era infine giunto e lentamente si avviò al luogo che circolarmente apre e chiude ogni viaggio e in breve giunse alla stazione; un breve e spuntino e di corsa su quel maledetto treno, via per sempre da quel fantasma, da quel dolore che non voleva sparire come una macchia di sangue mal lavata.....

Ma ciò che è morto non può essere ucciso, i fantasmi tornano sempre dove erano vissuti e nati, e infatti non appena le rotaie abbandonarono la loro immutabile stasi il cervello di Federico fu posseduto dal fantasma di ciò che sarebbe potuto essere un sogno.....

IRENE ERA TORNATA!....

A quel punto solo una soluzione per liberarsi di tutto era rimasta a Federico, una soluzione definitiva e dalla quale non avrebbe mai più potuto tornare indietro: armeggiò nei suoi bagagli, estrasse l’arma che lui da sempre aveva preferito, la liberò rapidamente dalla sua sicura e puntando dritto come un toro sul drappo rosso si mise a scrivere…


APPUNTI SPARSI DI UN TIMIDO VIAGGIATORE

Era un giorno di Novembre come tanti, troppi altri. Io ero perso nella noia e nella forsennata ricerca di riempire il mio tempo desolatamente vuoto provando a fare di tutto pur di non tornare a casa.

Per mia fortuna una mia amica seguiva questo corso pomeridiano di tedesco e pur di restare a Venezia mi ero deciso di passare le successive due ore ad ascoltare una lingua tanto innegabilmente affascinante quanto assente nel mio cervello.....

Era un giorno di Novembre come tanti, troppi altri e stavo aspettando fuori dell’aula che finisse la lezione che la occupava, già pensando come riempire il giorno dopo e quelli successivi, quando dei passi risuonarono dalle scale che salivano dal piano sottostante. <..> pensai dentro di me, già pentendomi della scelta fatta e pronto a lasciare la mia amica da sola… ma no, non era la prof, era una ragazza.....

Dalle scale prima apparvero i capelli, lunghi e ondulati, seguiti da un viso angelico e ad un elegantissimo completo nero-beige, di quelli che andavano di moda ma che una volta tanto vedevano me, bastian contrario per natura, indubitabilmente d’accordo, ....

Era STATO un giorno di Novembre come tanti, troppi altri.....

Questa improvvisa quanto inattesa apparizione aveva penetrato il mio io fin nelle più remote profondità dell’animo che forse neppure io stesso credevo e sapevo prima d’ora d’aver avuto. Ero pietrificato e quasi scisso tra il mio corpo che, una volta liberatasi l’aula, come un automa si mosse per entrarvi e prendere un posto, e il mio io sentimentale calamitato inesorabilmente verso di Lei che si era posta a sedere così lontano.....

Furono due ore di tormento, con il mio sguardo a cercare febbrilmente il suo, ma le rare volte che ciò avveniva non lo reggevo, quasi schiacciato dallo splendore, e mi ritraevo, come un antico eroe greco che, giunto dopo lunghe peregrinazioni al tempio da tanto ricercato della sua divinità protettrice, temesse di entrarvi non sentendosi all’altezza e restasse immobilizzato davanti all’ingresso.....

Passarono così le due canoniche ore, ma passarono anche le settimane e i mesi e oltre a una muta adorazione non riuscivo ad andare, seppure dentro di me fossi lacerato da insostenibili dolori spirituali che mi spingevano all’agire nonostante il corpo si rifiutasse.....

Si stava avvicinando la fine con l’appropinquarsi delle vacanze natalizie e della lunga pausa invernale, e sapevo che rischiavo di perderla per lungo tempo (per sempre?) e non so come né quando, ma dentro di me scattò qualcosa e quel giorno decisi che dovevo parlarle almeno per rompere quel maledetto ghiaccio che rischiava di congelare tutto il sangue che erratico vagava nelle mie vene.....

La lezione era finita e lei stava al solito velocemente prendendo la strada di casa (di dov’era? veneta? italiana? ma poi, ERA o si trattava semplicemente di un mio sogno?), al che io la seguii e dopo un po’ che camminavamo parallelamente, alcune parole uscirono dalla mia bocca; forse le sembrai sciocco o troppo ovvio, ma in questi casi non ero mai riuscito a connettere cervello e bocca prima di parlare.....

Non fu (non mi parve) irritata o infastidita, e così l’accompagnai lentamente in stazione parlando di lei e di me (sì, era italiana, era veneta, ma soprattutto ERA), e l’ultima cosa che seppi prima di lasciarla fu il suo nome, la miglior conclusione a venti minuti di dialogo che riuscirono a colmare due mesi di dubbi, lacerazioni e sofferenze.....

Ma il destino era come al solito crudele: l’avevo appena conosciuta ma già rischiavo di perderla. Solo una settimana mi era rimasta ancora per vederla, ma che fare? confessarle il mio amore? forse, ma avrei corso il rischio di intimidirla; chiederle se avrei potuto rivederla lo stesso nel futuro anche dopo la fine dei corsi? proponibile, ma un rifiuto mio avrebbe ucciso; chiederle di scambiarci il numero di cellulare? cosa vitale, ma forse di una banalità da far cadere le braccia.....

Non so ancora; dicono che l’amore ingegni la mente, ma spesso blocca i tesi pensieri o li fa muovere in modo del tutto inconsulto, e già troppo spesso avevo sbagliato tutto, ma ora un errore non me lo sarei perdonato, e nei giorni che mi mancavano dal rivederla (e che avrei contato come un militare di leva o un carcerato conta i giorno che gli mancano alla liberazione) avrei pensato a lungo, certo che avrei fatto la scelta giusta.....

E poi a farmi luce c’erano il suo viso e suoi occhi, e non potevo fallire il sentiero così illuminato; no, non me lo sarei perdonato…....

LA VISIONE DELLA SIGNORA DEL LAGO - libera traduzione del brano The Vision of the Lady of the Lake, by The STrawbst

Il marinaio s’alzò al fragoroso suono del suo cuore durante il tacito arrivo dell’alba. Spiò attraverso la finestra sulla nebbia del lago che pesava come un sudario sulla fissità del mattino; le ragnatele d’argento stillavano di rugiada, pendenti dai cespugli come splendente filigrana, e i gigli dormienti venivano riflessi sul lago, così delicati, sereni e teneri.....

Il marinaio sospirò mentre si inoltrava tra gli alberi al luogo dove la sua barca era ormeggiata; quel cupo suono, mentre i suoi passi echeggiavano fino a quando il suono si perse nel lago, svanì quando liberò la barca. Allungando la testa attraverso quell’umida e appiccicosa foschia, pensò d’aver visto strane forme turbinanti: uno scherzo della vista che la nebbia spesso crea.....

Il marinaio era così intento ad attraversare il lago che non s’accorse che la corrente era aumentata allontanandolo dalle zone conosciute e venendo fermamente, anche se inconsciamente, trascinato; all’improvviso la nebbia parve salire sufficientemente per mostrare al marinaio uno stagno mai visto prima, innaturalmente profondo, nero, silenzioso e freddo.....

La camicia del marinaio gli si incollò sulle spalle: stava sudando per lo sforzo e la paura, aveva la sensazione che qualcuno lo stava guardando, sentì la sua presenza vicina. Un’invisibile forza lo blocco, la forza dalle sue braccia era totalmente svanita, gli intricati cespugli si richiusero attorno al lago: era in trappola come un pesce nella rete.....

All’improvviso apparve dall’acqua vicino a lui una spettrale figura di ragazza, vestita con una scintillante tunica; la ragazza si avvicinava materializzandosi, i capelli che incoronavano delicatamente la sua testa erano un riflesso d’oro colpito dal sole: tutte le più splendide ragazze s’erano incarnate in una.....

Offrì la marinaio la spada che stava reggendo che brillò davanti ai suoi occhi: Excalibur non era certo un giusto paragone per una spada che non poteva semplicemente essere descritta. Il marinaio rimase pietrificato dal suo sguardo che lo raggiunse nelle più profonde vie del suo animo: a chi avrebbe potuto conquistare i mali della vita, lei s’offrì completamente.....

La ragazza svanì dalla sua vista lasciandolo con la spada in mano, i capelli sembrarono indurirsi sulla sua nuca: una creatura lo avvicinò dalle profondità della nebbia, era potente, enorme ma stupida dal momento che fallì l’attacco; il marinaio colpì il suo enorme e stupido occhio e la creatura cadde riversa.....

Il cielo improvvisamente sembrò oscurarsi come per un’eclisse, il marinaio si chinò mentre una gigantesca aquila cadde in picchiata; un urlo di terrore fuggì dalle sue labbra mentre l’aquila gli si mise davanti con orgogliosa postura ammirando i suoi artigli maligni e crudeli. Avvantaggiandosi il marinaio colpì per primo e l’aquila sprofondò nello stagno.....

Il marinaio terrorizzato tentò di muovere la barca ma il remo aveva generato radici che si perdevano nell’acqua, la riva prese vita sotto forma di spire d’un serpente e tutto ciò che si poteva sentire era il suo viscido strisciare. Lanciò al marinaio uno sguardo di puro odio, si gettò nell’acqua e nuotò verso la barca mentre il marinaio era ipnotizzato dai suoi verdi e gelosi occhi quando sì levò dall’acqua gettandosigli attorno al collo.....

Non appena le spire si strinsero, il respiro iniziò a mancargli fino a soffocare, ma alzò disperatamente la spada e mentre il serpente stava già esultando gli mozzò il capo e le sue spire morte volarono nell’aria. Il marinaio s’asciugò il sudore dalla fronte, il suo cuore stava battendo come mai prima, i suoi occhi, come una lingua di lucertola, sfrecciarono attorno non osando più riposare.....

Un involontario brivido gli salì per la schiena quando udì il suono d’un sinistro ululato: un lupo apparve sulle rive dello stagno, gocce di saliva cadevano dalle sue ripugnanti fauci e l’odio covava nelle profondità dei suoi occhi che brillavano come tizzoni del fuoco infernale. Sembrava ingigantirsi mentre si chinava e ringhiava, limitandosi a osservare il marinaio che iniziava ad esser esausto. ....

Sembrava quasi che il lupo avesse imparato la lezione dal momento che non attaccò come gli altri avevano fatto, ma attese il momento giusto e balzò non appena il marinaio fissò il sole. Anche il marinaio però aveva imparato a difendersi e brandendo la spada come fosse un pugnale lo infilzò profondamente nel cuore del lupo e si buttò in ginocchio pregando per la sua vita.....

Si girò di scatto non appena sentì una mano sulla spalla, trovando la ragazza al suo fianco che gli sorrise e il mondo sembrò aprirsi dinnanzi a lui. Cercò di parlare ma la sua lingua era incatenata “Dovresti infilzare la spada profondamente nel mio cuore affinchè non sparisca in polvere” così lei offrì al marinaio il significato della vita e dell’amore, se lui non avesse potuto conquistare altro che lussuria.....

Scoprì il suo seno al marinaio che era ancora totalmente ammutolito, rigettò la spada nell’acqua perché tornasse nelle profondità da cui era emersa. L’acqua attorno a lui iniziò a ribollire, la ragazza cominciò a evaporare via, la sua barca fu sommersa mentre le creature si risollevarono.....

E la malvagità visse per un alto giorno…

The power of hatred

Brevissimo pensiero filosofico legato a un sentimento che adoro: l'odio.
Dicono che l'amore sia più forte (AMOR OMNIA VICIT); concordo che sia probabilmente più bello e piacevole, ma per esser gustato pienamente deve esser corrisposto, altrimenti diviene fonte di dolori e tristezza.
L'odio invece non necessita di alcuna corrispondenza per soddisfare chi lo prova, e secondo me in ciò sta la sua forza dominante e prorompente.
SIC DIXI
AMEN

EROTOMUSICALITA'

In uno dei miei momenti di delirio mi è venuta voglia di cercare una connessione tra alcuni strumenti musicali che amo e realtà erotiche, dal momento che secondo il mio punto di vista musica ed eros vivono su due rette coincidenti destinate spesso a incrociarsi... vediamo ora come...

ORGANO: questo è il mio strumento preferito e nelle mani di un sapiente musicista diventa qualcosa di assolutamente orgasmico. Ascoltatevi una delle classiche Toccata e fuga di Bach e non potrete non riconoscervi una riscrittura in note dell'amplesso perfetto: la lentezza iniziale, la costante e inesorabile inquietudine di due corpi che si cercano e si sfamano l'un dell'altro, le urla lanciate al cielo dalle canne irrorate dall'aria e lo sconvolgente finale che innalza nell'etere le urla dell'orgasmo perfetto, ricercato e trovato all'unisono dai due amanti.

PIANOFORTE: il gesto stesso che è necessario alla creazione del suono non è altro che la metafora di infinite e languide carezze delle mani sul biancore della pelle, simboleggiata dai tasti, di chi ama arrestare il malefico passare del tempo in romantica adorazione dell'altrui corpo, perfetto all'occhio di un innamorato.

CONTRABBASSO: qua rischio la banalità (ciò che maggiormente odio), ma risulta fin troppo chiaro immaginare questo strumento come il corpo della propria amata che allo sfiorare dell'archetto delle proprie dita vibra ed emette suoni languidi, passionali e penetranti che accarezzano dolcemente i nervi cerebrali.

BATTERIA: lo strumento che, se fossi stato musicista, avrei voluto suonare, rappresenta al meglio la passionalità furente, dolorosa ma estasiante del BDSM, e che solo una frusta, sapientemente maneggiata dalla propria Padrona, ritmata sulla pelle assetata di rosso ed ecchimosi può infondere. Perchè anche il donare il proprio dolore è un estremo gesto d'amore nei confronti della persona che si adora sopra ogni cosa.