lunedì 14 novembre 2011

PRAGA MAGICA - Angelo Maria Ripellino


L’amore può essere declinato in molte modalità diverse e verso molteplici tipologie di oggetti sentimentali, e questo saggio/diario di viaggio/enciclopedico zibaldone culturale di Ripellino è uno straordinario atto d’amore verso Praga, ancor più straordinario se si pensa che l’autore era palermitano, innamorato quindi anche della sua città (due città d’oro, non casuale come elemento apparentemente) visto che giunge a dire che “Praga è più bella della mia prediletta città di Palermo asserì Liliencron con un accostamento che mi ingombra l’anima di duplice malinconia” [p. 324]

Chi apre le pagine di questo libro, inizia un viaggio attraverso lo spazio e soprattutto il tempo nella capitale boema, che ci appare come un caleidoscopico mondo a sè stante, che unisce vita e morte, allegria e dolore più cupo, attraversata da mille personaggi che, sena differenze di ceto, cultura, razza e idee, ci appaiono come attori su un palcoscenico polveroso, che odora di fumo stantio e birra versata per terra, ma che si illumina di Vita con la V maiuscola a 360 gradi.

Ecco infatti Rodolfo II, il re ipocondriaco, crudele, nevrotico ma che visse in spasmodico infinito amplesso con Praga; ecco Tycho Brahe, l’astronomo, fors’anche mago e alchemista, dal naso metallico (ricordo di un duello giovanile per amore), morto forse avvelenato e che riposa sotto una lastra di rosso marmo nella chiesa di Tyn; ecco San Giovanni Nepomuceno, il santo torturato e gettato nella Vltava perché non volle raccontare al re le malefatte della moglie a lui dette in confessione, il cui scheletro mantenne per miracolo il muscolo linguare rosso, carnoso e vibrante. Ecco i pilastri letterari: Kafka, Hasek, i poeti minori, i letterati da università e i letterati da taverne e birra, le prostitute, i preti, i mercanti, l’eterno ebreo errante, i golem.

Ma non solo di carne sono fatti gli attori di quest’opera: anche le pietre, il legno, l’aria e l’acqua recitano sul palcoscenico, con le mille chiese di Praga, le stradine che si inerpicano per Vyserhad, il cielo della città, il fango marcio che prende vita nel Golem, il cimitero ebraico, monumento di morte nella morte, e su tutto campeggia Bilà Hora, la Montagna Bianca, la collinetta (non tragga in inganno tal nome altisonante) su cui, nel 1620, Praga e la Boemia tutta perse libertà e gloria a discapito del possente e ignobile esercito cattolico degli Absburgo, che incatenò per sempre la capitale boema al gioco austriaco, lasciandole il sogno e la rimembranza dell’antica gloria.

Ripellino ha ricostruito questo universo con sagacia e passione rare, con una prosa fluida seppur a tratti aulica, forse eccessivamente, ma che rispecchia il ridondante barocco che venne imposto a Praga dagli Asburgo e che schiacciò, ma mai uccise, la sottigliezza e la maestosità del gotico imperante, e tra memorie personali, dottissime citazioni di opere e letterati cechi, ebreo-praghesi, tedeschi, francesi che a Praga e di Praga hanno respiarto l’aria rara e magica, che può apparire la classica banale frase da agenzia di viaggi, ma che immergendosi idealmente nelle pagine di Ripellino risulta forse la sola perfetta descrizione di questa città.

Pensando a Praga schiava dell’Austria e poi, a guerra finita, a Praga schiava del regime sovietico, Ripellino chiude il suo atto d’amore con un’invocazione d’amore: “Praga, non ci daremo per vinti. Fatti froza, resisti. Non ci resta altro che percorrere insieme il lunghissimo, chapliniano cammino della speranza”. E il pensiero non può non andare a quello struggente pezzo degli Offlaga Disco Pax, Tatranky, che di Praga sovietica fa un quadretto di desolante malinconia.

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