Da un po' di tempo, per questioni affettive e di curiosità mie personali, mi sono voluto avvicinare alla letteratura brasiliana, a me del tutto ignota prima. Un giorno, passeggiando come spesso faccio per Feltrinelli, mi sono imbattuto in un libro, quasi fosse stato lui a chiamarmi: l'ho preso in mano, guardicchiato, aperto, annusato e alla fine ho deciso di prenderlo, per poi scoprire a casa che viene considerato la vetta più alta di tutta la letteratura brasiliana. Insomma ciò che cercavo mi ha trovato, e nella sua forma probabilmente più alta, e così ho deciso, avendolo terminato giusto poco fa, di lasciar traccia dei miei pensieri. tale libro è
João Guimaraes Rosa, "Grande Sertão"
Subito dico che è un romanzo di non facile lettura, per la mole (500 pagine), per la forma (nessuna divisione in capitoli o paragrafi, ma un lunghissimo fiume di parole, quasi joyciano nel suo essere, quasi un Rio delle Amazzoni che brama eroticamente di raggiungere l'oceano dove esplodere) e per il linguaggio (che il traduttore Edoardo Bizzarri ha magistralmente reso, conservando le peculiarità innovatrici e fantasiose linguistiche di Rosa, che alcuni critici hanno definito l'Omero, il Virgilio, il Cervantes e il Joyce di Brasile.
All'inizio fu dura anche per me, ma sono persona testarda in ogni cosa della mia vita, e la sfida era aperta e DOVEVO vincerla e così ho proseguito, e avanzando nelle parole mi sono lasciato imprigionare e ho seguito la corrente sino alla fine, sempre più affascinato e conquistato.
Cos'è "Grande Sertão"? E' una storia di "jagunços", cioè di briganti, ma briganti nobili, eroici, erotici, passionali (il magistrale e necessario glossario posto in conclusione del libro li paragona ai bravi manzoniani, ma di loro gli jagunços poco hanno a mio avviso) che vivono la vita e muoiono la morte nei "sertoes", i deserti che si aprono nelle immense distese di quel paese staroridnario, meraviglioso, affascinante, terrorizzante che è il Brasile. Il sertão non perdona: caldo, polvere, pioggia, vento, ma anche distese lussureggianti di pascoli, fazendas, foreste, fiumi, che i nostri eroi attraversano.
"Grande Sertão" è Riobaldo, lo jagunço narratore, che in un interminabile susseguirsi di parole, descrive la sua vita, tra momenti di battaglie e scontri picareschi, profonde riflessioni sul senso della vita e delle vite, amori sessuali e amori di puro cuore, e continui ribaltamenti di alleanze, di attrazioni, di personalità.
Riobaldo non è solo Riobaldo, ma nel divenire degli eventi essi assume diversi nomi: è Tatarana (colui che suona il fucile come uno strumento) quando viene accolto dal capo del suo gruppo, è l'Urutù-blanco (velenosissimo serpente brasiliano) quando, ucciso dal tradimento di un suo uomo il leggendario capo Joca Ramiro, diventa capo assoluto dei jagunços rimasti in cerca di pura e sana vendetta sulle vipere che hanno osato disturbare l'ordine e la pace regnante nei sertoes, torna infine ad essere semplicemente Riobaldo alla conclusione della sua storia tutta narrata in prima persona a un misterioso "vossignoria".
Questo romanzo è anche romanzo d'amore, per le ragazze incontrate lungo i mille omerici viaggi nei mari di verde albero e giallo sabbia, per la ragazza promessa sposa Otacilia, uno sguardo da una finestra, un sorriso, una pelle lucente che intrappola il cuore di Riobaldo, ma è anche l'amore per un suo misterioso compagno sin dall'infanzia, Diadorim, figura emblematica, misteriosa e che sarà il colpo di scena conclusivo ribaltante il tutto.
Insomma, è un romanzo che va affrontato, pur nella sua difficoltà, perchè è affresco di vita umana, con tutte le sue debolezze, perchè è un acquerello sulla vita di un certo Brasile misterioso, affascinante e in fondo anche magico (Dio, Satana, natura: ogni entità spirituale avvolge la vita dei jagunços sempre, in ogni loro attimo) e perchè, come Luciana Picchio afferma in quarta di copertina: "questo libro magico [...] è forse il dono più grande che l' America Latina del realismo magico e il Brasile della parola iridata hanno fatto in questi anni a un' Europa di disseccato cerebralismo"
Appunto: contro il cerebralismo, la scientificità, il raziocinio, abbandoniamoci e abbandonatevi alla magia e alla parola che è anche disegno oltre che grafia di questa opera. ne vale la pena.
domenica 19 settembre 2010
martedì 17 agosto 2010
curiosità linguistiche
giovedì 29 luglio 2010
La Commedia secondo Borges

"Morta Beatrice, perduta per sempre Beatrice, Dante giocò con la finzione di ritrovarla, per mitigare la tristezza; io personalmente penso che abbia edificato la triplice architettura del suo poema per introdurvi quell'incontro" [J. L. Borges]
Mi hanno commosso queste parole, sognanti un amore che davvero "omnia vincit"...
martedì 29 giugno 2010
RECENSIO - J. Coe, "La casa del sonno"
Dopo aver letto altri romanzi non male, ma che non hanno lasciato segni evidenti dentro di me, torno dopo un po’ di tempo oggi per presentare un libro davvero straordinario e che consiglio a tutti:
J. COE, “La casa del sonno”, Feltrinelli.
Già sin dalla mera architettura narrativa il romanzo si presenta come un piccolo gioiellino, con salti tra presente e passato, che si alternano tra capitoli pari e quelli dispari, e con le varie sezioni (che seguono le fasi del sonno scientificamente studiate), collegate tra loro dallo stesso gruppo di parole che però si riferiscono a tempi diversi.
Ma oltre all’architettura generale, anche l’arredamento di storie, personaggi, luoghi che si incrociano, si ritrovano, si perdono e si incontrano rendono il lavoro di Coe un lungo andirivieni nella mente umana e nel senso del tempo che si perde senza speranze (vago richiamo, probabilmente, a “Gli anni” di V. Wolf) e che tiene il lettore attaccato, ora con un sorriso, ora con una lacrima, ora con un moto di rabbia per ciò che sarebbe potuto succedere e non è stato, sino all’ultima pagina.
I personaggi (il disperato innamorato Robert, l’archetipo di scienziato pazzo Gregory, la dolcemente folle Sarah, il novello Ulisse Terry, alla ricerca eterna di un film del neorealismo italiano, forse inesistente e di cui esiste solo un unico fotogramma) sono pupazzi in balia del tempo, pupazzi che però cercano sempre la loro realtà e la loro natura anche perdendosi e mutando radicalmente forma.
La genialità di Coe si rivela anche nella sapiente costruzione a scatole cinesi di tutto l’intreccio, nella presenza di momenti di grande comicità e in due trovate indimenticabili: una finta breve autobiografia con la presenza di note al testo saltate che presentano conseguentemente commenti dissacranti, in un gioco che solo la potenza della lingua può permettere, e la consegna all’appendice conclusiva, extra narrativa, di tre documenti (una poesia, una lettera e una trascrizione) che svelano definitivamente ciò che ancora ci era stato lasciato nell’ombra nebbiosa del mistero.
Concludendo, un romanzo che consiglio caldamente a tutti, perché perdersi nei labirinti della mente umana, che sono in fondo anche i nostri, è una possibilità anche di trovare noi stessi.
J. COE, “La casa del sonno”, Feltrinelli.
Già sin dalla mera architettura narrativa il romanzo si presenta come un piccolo gioiellino, con salti tra presente e passato, che si alternano tra capitoli pari e quelli dispari, e con le varie sezioni (che seguono le fasi del sonno scientificamente studiate), collegate tra loro dallo stesso gruppo di parole che però si riferiscono a tempi diversi.
Ma oltre all’architettura generale, anche l’arredamento di storie, personaggi, luoghi che si incrociano, si ritrovano, si perdono e si incontrano rendono il lavoro di Coe un lungo andirivieni nella mente umana e nel senso del tempo che si perde senza speranze (vago richiamo, probabilmente, a “Gli anni” di V. Wolf) e che tiene il lettore attaccato, ora con un sorriso, ora con una lacrima, ora con un moto di rabbia per ciò che sarebbe potuto succedere e non è stato, sino all’ultima pagina.
I personaggi (il disperato innamorato Robert, l’archetipo di scienziato pazzo Gregory, la dolcemente folle Sarah, il novello Ulisse Terry, alla ricerca eterna di un film del neorealismo italiano, forse inesistente e di cui esiste solo un unico fotogramma) sono pupazzi in balia del tempo, pupazzi che però cercano sempre la loro realtà e la loro natura anche perdendosi e mutando radicalmente forma.
La genialità di Coe si rivela anche nella sapiente costruzione a scatole cinesi di tutto l’intreccio, nella presenza di momenti di grande comicità e in due trovate indimenticabili: una finta breve autobiografia con la presenza di note al testo saltate che presentano conseguentemente commenti dissacranti, in un gioco che solo la potenza della lingua può permettere, e la consegna all’appendice conclusiva, extra narrativa, di tre documenti (una poesia, una lettera e una trascrizione) che svelano definitivamente ciò che ancora ci era stato lasciato nell’ombra nebbiosa del mistero.
Concludendo, un romanzo che consiglio caldamente a tutti, perché perdersi nei labirinti della mente umana, che sono in fondo anche i nostri, è una possibilità anche di trovare noi stessi.
venerdì 25 giugno 2010
The solitary knight's lament
Panismo
martedì 15 giugno 2010
The River
Sogno di un fiume
che spezzi le catene
schiavizzanti
di natura e fisica
anelante all'origo sua
e risalga dallo standardizzante mare
alla sorgente
per ritrovar
se stesso
urlando a noi umani
VIVETE!
che spezzi le catene
schiavizzanti
di natura e fisica
anelante all'origo sua
e risalga dallo standardizzante mare
alla sorgente
per ritrovar
se stesso
urlando a noi umani
VIVETE!
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